Nell'ultimo turno di campionato, il calcio ha ricordato con un minuto di raccoglimento Luca Colosimo, l'arbitro morto una settimana fa in un incidente stradale dopo aver diretto una gara di Lega Pro. Una tragedia che ha colpito un ragazzo di 30 anni che rientrava di notte per non perdere il lunedì di lavoro, visto che il rimborso per una partita di Lega Pro ammonta ad appena 100 euro.
Abbiamo visto gli arbitri tutti abbracciati durante il minuto di silenzio, un'immagine emblematica di uomini abituati ad essere sempre soli in campo, contro tutto e tutti; sì perché sono sempre il bersaglio più facile da colpire e quasi mai ci si mette nei loro panni. Ho voluto proprio per questo motivo dedicargli un post e anche di più, dato che nel libro che sto scrivendo, un intero capitolo parlerà di loro "uomini soli al comando".
Come sempre però nel nostro paese c'è una faccia della medaglia positiva ed una negativa; comincio da quella negativa: il giudice sportivo della Lega Pro ha inflitto un'ammenda di 7.500 euro al Barletta Calcio perché i suoi sostenitori, durante la gara contro la Paganese hanno impedito il ricordo dell'arbitro Luca Colosimo, morto in un incidente stradale la settimana scorsa. Prima hanno fatto esplodere un grosso petardo, poi "con espressioni oltraggiose" e "cori" urlati con un megafono, hanno impedito il minuto di silenzio deciso dalla Federazione in tutti i campi di gioco d'Italia.
Credo che ci sia poco da commentare anche per non dare troppa soddisfazione a dei poveri "imbecilli".
L'aspetto "positivo" della vicenda, anche se di positivo c'è poco nella morte di un ragazzo, è che ci si è fermati un attimo a riflettere sul valore delle passioni, come ci insegna il più famoso collega Rizzoli in una lettera scritta per l'occasione (è un po' lunga ma vi assicuro che ne vale la pena).
“Non è il critico che conta; non colui che sottolinea come l’uomo forte sia caduto o dove colui che doveva fare avrebbe potuto fare meglio. Il credito appartiene a colui che scende veramente nell’arena, la cui faccia è macchiata dalla polvere, dal sudore e dal sangue; colui che combatte coraggiosamente, che sbaglia, che manca l’obiettivo ripetutamente, perché non esiste sforzo senza errore e fallimento; a chi si sforza veramente di fare ciò che deve; chi conosce il grande entusiasmo, la grande devozione; chi si spende per una nobile causa; colui che nel migliore dei casi conosce il trionfo del grande risultato, e nel peggiore, se fallisce, almeno fallisce osando molto, cosicché il suo posto non sarà mai insieme alle anime timide e fredde che non conoscono né la vittoria, né la sconfitta”.(Theodore Roosevelt – Cittadinanza in una Repubblica)
Quando andiamo in giro per la città la gente dice di noi “Quello è l’arbitro” siete orgogliosi di questa definizione? Vi piace? Se vi piace allora siamo qui per lo stesso motivo. Queste parole, pronunciate qualche settimana fa da Domenico Celi, arbitro di Serie A attualmente fermo per infortunio, durante la visita alla sezione di Jesi, ci torneranno utili nel corso di questo articolo. Un arbitro, infatti, è tale dentro e fuori dal campo. Essere arbitro vuol dire portare con sé alcuni valori come il rispetto delle regole, la correttezza, la puntualità e la dedizione. Certo non potevamo pensare che si potesse essere arbitri anche nel tragico momento in cui arriva la morte. È successo a Luca Colosimo domenica scorsa in un maledetto incidente di cui si è ampiamente parlato sui giornali. Luca tornava da Ferrara, dove era andato ad arbitrare. Ma in pochi sanno dove lavorava Luca. O cosa aveva studiato. Tutti sanno però che Luca era un arbitro.
È il destino che porta con sé quella divisa, e se la indossi con orgoglio nessuno potrà mai togliertela di dosso, neanche la morte. Si è detto di tutto, di bello, su Luca. Sarebbe persino ridondante tornarci su. Si è detto che non si può morire inseguendo una passione, ma non è vero. Si muore, purtroppo, facendo paracadutismo, arrampicata, andando in bicicletta, persino giocando a pallone. Di passioni si vive, di passioni si può anche morire. Quello che non si può sopportare sono i luoghi comuni, le verità che vengono fuori solo quando succedono le tragedie. Gli arbitri viaggiano da soli, in molti casi ad orari improbabili, la mattina presto o la sera tardi, dopo una giornata che ti logora fisicamente ma soprattutto psicologicamente. Spesso le madri chiamano e chiedono se va tutto bene. E gli arbitri rispondo “certo mamma, cosa vuoi che succeda, tra poco arrivo”. Molti tifosi pensano che viaggino in business class o in taxi e invece sono gli arbitri che guidano, gli arbitri che rischiano di addormentarsi, perché l’adrenalina l’hanno lasciata tutta in campo.
Non si può aspettare la morte per ricevere un applauso o una parola di incoraggiamento. Perché Luca, domenica, sarà stato insultato come tutti gli arbitri, su tutti i campi, per un fischio sbagliato o poco gradito. Magari qualcuno gli avrà “ironicamente” augurato di schiantarsi con la macchina al ritorno perché, in fondo, “fa parte del gioco, noi mica lo pensiamo davvero”. È colpa del destino, sia chiaro, ma voglio solo capire se dal prossimo fine settimana torneremo ad augurare la morte a ragazzini di 16 anni, rei di non aver fatto baldoria con i loro coetanei per andare a dormire presto, “perché domani ho la partita dei giovanissimi”. Perché è con questa cultura, con questa ipocrisia, con questi pensieri che ogni santa domenica un arbitro si confronta tornando a casa. Pensando e riflettendo sui propri errori, aggiungendo preoccupazione e tensione alla stanchezza, in uno sport che a volte ti logora, anche se lo ami da morire. E lo vivi, come giusto che sia, come la passione più grande che hai. Tanto da morire con il borsone nel portabagagli e con la divisa ancora sudata.
Allora, se non vogliamo che sia l’ipocrisia a vincere e se davvero vogliamo onorare Luca facciamo un applauso al prossimo arbitro che ci troviamo davanti. Magari quello che sta arbitrando la partita di vostro figlio e che forse è più giovane di lui. Rispettatelo quando fa un errore, criticatelo senza insultarlo, mettendo da parte le mamme, le sorelle, le malattie. Godetevi la partita e fate un respiro, pensando a tutte le volte che avete ferito l’anima di ragazzi forti, ma pur sempre umani. Fatelo per Luca, almeno per una domenica.”