mercoledì 25 marzo 2015

Calciatore a tempo indeterminato

"Dipendesse da me, giocherei con il Bayern fino a 97 anni"; così a gennaio aveva dichiarato Franck Ribery. Il paradosso del francese potrebbe però diventare realtà. Heinz Müller, 36 anni, è un portiere a cui lo scorso giugno è scaduto il contratto con il Mainz; lui voleva rinnovare e pretendeva un contratto a tempo indeterminato, il club aveva altri piani e Müller se l’è legata al dito portando la società tedesca in tribunale.


Fin qui niente di strano, anche perché fino a oggi la richiesta di Müller era stata sottovalutata sia dal Mainz che dai media. Poi però è arrivata la sentenza del giudice del lavoro Ruth Lippa: gli sportivi vanno considerati come tutti gli altri lavoratori, e hanno quindi diritto, dopo due anni di lavoro, a un contratto a tempo indeterminato. Non è quindi da considerarsi valida la scadenza del contratto. Harald Strutz, proprietario del Mainz e vice presidente della DFB si è detto confuso: “Questa sentenza è unica nel suo genere. Tutti i processi del passato hanno portato a verdetti opposti. Faremo ricorso: se ci dovessero dare torto il calcio subirebbe una svolta epocale, paragonabile a quella voluta da Bosman. Le società dovrebbero pagare lo stipendio a decine e decine di giocatori fino alla pensione”. L’avvocato del Mainz, Christoph Schickhardt, ha spiegato: “Il calcio non è paragonabile agli altri lavori. Gli sportivi non sono in grado di offrire le stesse prestazioni lavorative per così tanti anni. Inevitabilmente vanno incontro a cali fisici. La giudice non ne ha tenuto conto. Per me è chiaro: questa sentenza non ha senso, anche perché non si può creare un precedente del genere”. Effettivamente questa è una sentenza che metterebbe in ginocchio molti club. Intanto però Müller gongola, ma mi auguro per poco, fino cioè a quando qualcuno non analizzi seriamente il caso e ribalti la sentenza che non ho paura a definire insensata. Senza offesa per nessuno, ma vi sembrerebbe giusto che una società paghi lo stipendio ad elementi del calibro di Ronaldo e Adriano, tanto per fare due nomi veramente di peso?

lunedì 23 marzo 2015

Balotelli trattenuto dai tifosi

Siamo ormai abituati alle "Balotellate", ma questa volta Mario si è superato; sono infatti ben tre gli episodi degni di nota accaduti durante il big match della Premier League dello scorso weekend tra Liverpool e Manchester United. SuperMario, partito in panchina e in grado di incidere ben poco dal suo ingresso in campo - fatta eccezione per il solito cartellino giallo - ha trovato comunque il modo di far parlare di sè: prima con il provocatorio 6 mostrato ai tifosi dei Red Devils, poi una rissa in campo solo sfiorata grazie all'intervento dei suoi tifosi e infine il dito medio mostrato ancora ai fan dello United.
Andiamo con ordine: durante il riscaldamento, mostrando con le mani il numero 6, l'ex Milan ha voluto ricordare ai supporter del Manchester United lo storico derby vinto 6-1 a Old Trafford dal Man City di Mancini nel quale Balo è stato autore di una doppietta.
Una volta entrato in campo, si è anzi fatto notare solo per un'ammonizione e una rissa sfiorata con Smalling. Il difensore inglese entra duro su SuperMario, la cui reazione viene però fermata da alcuni tifosi a bordo campo, prontissimi a bloccarlo.
Infine, nel post gara, Balotelli abbandona Anfield mostrando il dito medio ai tifosi del Manchester, che aspettavano di lasciare lo stadio dopo la vittoria per 2-1 firmata dalla splendida doppietta di Juan Mata.


Vorrei però soffermarmi sul secondo episodio perché lo trovo bizzarro e curioso: Minuto 79, dopo un contrasto, Chris Smalling e Balotelli finiscono contro i cartelloni pubblicitari; l'italiano prende per un piede il difensore del Manchester United e gli animi si scaldano. Balo si rialza e affronta l'avversario, ma a quel punto i tifosi della prima fila lo trattengono e lo invitano a calmarsi per evitare sanzioni disciplinari. 
La scena è già diventata un tormentone sui social network e la cosa non mi stupisce visto che episodi simili sono più unici che rari, ma quando c'è di mezzo Mario ci si può aspettare di tutto.

lunedì 16 marzo 2015

Il Valore delle Passioni

Nell'ultimo turno di campionato, il calcio ha ricordato con un minuto di raccoglimento Luca Colosimo, l'arbitro morto una settimana fa in un incidente stradale dopo aver diretto una gara di Lega Pro. Una tragedia che ha colpito un ragazzo di 30 anni che rientrava di notte per non perdere il lunedì di lavoro, visto che il rimborso per una partita di Lega Pro ammonta ad appena 100 euro.
Abbiamo visto gli arbitri tutti abbracciati durante il minuto di silenzio, un'immagine emblematica di uomini abituati ad essere sempre soli in campo, contro tutto e tutti; sì perché sono sempre il bersaglio più facile da colpire e quasi mai ci si mette nei loro panni. Ho voluto proprio per questo motivo dedicargli un post e anche di più, dato che nel libro che sto scrivendo, un intero capitolo parlerà di loro "uomini soli al comando".
Come sempre però nel nostro paese c'è una faccia della medaglia positiva ed una negativa; comincio da quella negativa: il giudice sportivo della Lega Pro ha inflitto un'ammenda di 7.500 euro al Barletta Calcio perché i suoi sostenitori, durante la gara contro la Paganese hanno impedito il ricordo dell'arbitro Luca Colosimo, morto in un incidente stradale la settimana scorsa. Prima hanno fatto esplodere un grosso petardo, poi "con espressioni oltraggiose" e "cori" urlati con un megafono, hanno impedito il minuto di silenzio deciso dalla Federazione in tutti i campi di gioco d'Italia.
Credo che ci sia poco da commentare anche per non dare troppa soddisfazione a dei poveri "imbecilli".


L'aspetto "positivo" della vicenda, anche se di positivo c'è poco nella morte di un ragazzo, è che ci si è fermati un attimo a riflettere sul valore delle passioni, come ci insegna il più famoso collega Rizzoli in una lettera scritta per l'occasione (è un po' lunga ma vi assicuro che ne vale la pena).
“Non è il critico che conta; non colui che sottolinea come l’uomo forte sia caduto o dove colui che doveva fare avrebbe potuto fare meglio. Il credito appartiene a colui che scende veramente nell’arena, la cui faccia è macchiata dalla polvere, dal sudore e dal sangue; colui che combatte coraggiosamente, che sbaglia, che manca l’obiettivo ripetutamente, perché non esiste sforzo senza errore e fallimento; a chi si sforza veramente di fare ciò che deve; chi conosce il grande entusiasmo, la grande devozione; chi si spende per una nobile causa; colui che nel migliore dei casi conosce il trionfo del grande risultato, e nel peggiore, se fallisce, almeno fallisce osando molto, cosicché il suo posto non sarà mai insieme alle anime timide e fredde che non conoscono né la vittoria, né la sconfitta”.(Theodore Roosevelt – Cittadinanza in una Repubblica)
Quando andiamo in giro per la città la gente dice di noi “Quello è l’arbitro” siete orgogliosi di questa definizione? Vi piace? Se vi piace allora siamo qui per lo stesso motivo. Queste parole, pronunciate qualche settimana fa da Domenico Celi, arbitro di Serie A attualmente fermo per infortunio, durante la visita alla sezione di Jesi, ci torneranno utili nel corso di questo articolo. Un arbitro, infatti, è tale dentro e fuori dal campo. Essere arbitro vuol dire portare con sé alcuni valori come il rispetto delle regole, la correttezza, la puntualità e la dedizione. Certo non potevamo pensare che si potesse essere arbitri anche nel tragico momento in cui arriva la morte. È successo a Luca Colosimo domenica scorsa in un maledetto incidente di cui si è ampiamente parlato sui giornali. Luca tornava da Ferrara, dove era andato ad arbitrare. Ma in pochi sanno dove lavorava Luca. O cosa aveva studiato. Tutti sanno però che Luca era un arbitro.
È il destino che porta con sé quella divisa, e se la indossi con orgoglio nessuno potrà mai togliertela di dosso, neanche la morte. Si è detto di tutto, di bello, su Luca. Sarebbe persino ridondante tornarci su. Si è detto che non si può morire inseguendo una passione, ma non è vero. Si muore, purtroppo, facendo paracadutismo, arrampicata, andando in bicicletta, persino giocando a pallone. Di passioni si vive, di passioni si può anche morire. Quello che non si può sopportare sono i luoghi comuni, le verità che vengono fuori solo quando succedono le tragedie. Gli arbitri viaggiano da soli, in molti casi ad orari improbabili, la mattina presto o la sera tardi, dopo una giornata che ti logora fisicamente ma soprattutto psicologicamente. Spesso le madri chiamano e chiedono se va tutto bene. E gli arbitri rispondo “certo mamma, cosa vuoi che succeda, tra poco arrivo”. Molti tifosi pensano che viaggino in business class o in taxi e invece sono gli arbitri che guidano, gli arbitri che rischiano di addormentarsi, perché l’adrenalina l’hanno lasciata tutta in campo.
Non si può aspettare la morte per ricevere un applauso o una parola di incoraggiamento. Perché Luca, domenica, sarà stato insultato come tutti gli arbitri, su tutti i campi, per un fischio sbagliato o poco gradito. Magari qualcuno gli avrà “ironicamente” augurato di schiantarsi con la macchina al ritorno perché, in fondo, “fa parte del gioco, noi mica lo pensiamo davvero”. È colpa del destino, sia chiaro, ma voglio solo capire se dal prossimo fine settimana torneremo ad augurare la morte a ragazzini di 16 anni, rei di non aver fatto baldoria con i loro coetanei per andare a dormire presto, “perché domani ho la partita dei giovanissimi”. Perché è con questa cultura, con questa ipocrisia, con questi pensieri che ogni santa domenica un arbitro si confronta tornando a casa. Pensando e riflettendo sui propri errori, aggiungendo preoccupazione e tensione alla stanchezza, in uno sport che a volte ti logora, anche se lo ami da morire. E lo vivi, come giusto che sia, come la passione più grande che hai. Tanto da morire con il borsone nel portabagagli e con la divisa ancora sudata.
Allora, se non vogliamo che sia l’ipocrisia a vincere e se davvero vogliamo onorare Luca facciamo un applauso al prossimo arbitro che ci troviamo davanti. Magari quello che sta arbitrando la partita di vostro figlio e che forse è più giovane di lui. Rispettatelo quando fa un errore, criticatelo senza insultarlo, mettendo da parte le mamme, le sorelle, le malattie. Godetevi la partita e fate un respiro, pensando a tutte le volte che avete ferito l’anima di ragazzi forti, ma pur sempre umani. Fatelo per Luca, almeno per una domenica.”


mercoledì 11 marzo 2015

Il calcio è vita

La storia di Antonio Floro Flores è comune a quella di tanti calciatori cresciuti in ambienti "non facili": "Sono cresciuto nel Rione Traiano, quartiere di Napoli, e si sa che da noi non ci sono tante scelte: o prendi la tua strada, o c'è quell'altra", ha raccontato a "Il Calciatore", la rivista dell'Associazione Italiana Calciatori. Per sua fortuna, Floro Flores ha preso la parte giusta del bivio, ma di ostacoli ne ha trovati subito e uno poteva davvero segnarlo.
"Avevo 10-11 anni quando sono entrato per la prima volta in una scuola calcio, l'Atletico Toledo; l'idea di essere vincolato a un allenatore e a degli orari mi dava fastidio. I miei lavoravano, ma la ditta di mio padre stava per fallire e i soldi per la scuola calcio erano troppi. Ma dopo che mi avevano visto giocare, gli dissero che non c'erano problemi. Ricordo che poi non passò molto tempo e saltò fuori che l'allenatore era un pedofilo. Me la rivedo ancora la scena, mentre stavamo giocando, la marea di carabinieri che è arrivata. Così tornai a giocare per strada". Poi arrivò la chiamata del Posillipo, un'altra scuola calcio, che gli ha cambiato la vita, portandolo tra mille peripezie prima al Napoli ("Avevo smesso da tre mesi quando feci il provino") e poi in giro per l'Italia.


Oggi Floro Flores è un attaccante del Sassuolo. Ma senza il calcio la sua vita avrebbe preso chissà quale piega: "Sono arrivato alla terza media e quel diploma mi è stato regalato. La mia strada era il calcio, cosa andavo a fare a scuola? Era un ostacolo e sono sicuro che per il 99% dei ragazzi a Napoli sia ancora la stessa cosa. Il primo sogno il calcio, non ci sono altre strade. Ricordo la volta che un prof voleva parlare con mio padre e io avevo paura perché sapevo che poi a casa le avrei prese. Ma quando dissero a papà che avrebbe dovuto vietarmi di giocare, lui rispose: "Con che alternativa? Morire ammazzato o in galera?". Adesso mi viene da sorridere, penso al posto dove giocavamo. Me le ricordo le sparatorie, noi ragazzini che correvamo via e ci nascondevamo".
Storie come questa, comune a tanti ragazzi non solo del sud e non solo italiani, ti fanno riconciliare col calcio, anche quando i "signori" di questo sport ce la mettono tutta per farti passare la voglia perfino di guardare le partite; il calcio salva la vita, il calcio cambia la vita, insomma il calcio è vita!
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